Emozioni, storie, discriminazioni

Nuove Narrazioni
12 min readNov 13, 2023

Questo breve saggio fa parte di una serie dal titolo Come si costruisce un immaginario, che ha due obiettivi principali: riassumere degli studi e le riflessioni degli ultimi dieci anni sui temi dell’immaginario collettivo e delle narrazioni politiche; e offrire a movimenti e partiti politici progressisti degli strumenti e delle pratiche operative per rilanciare i propri valori e costruire consenso intorno alle proprie iniziative. Commenti, contributi e riflessioni sono sempre benvenute.

Gli aspetti inconsci del razzismo

“C’è un’ampia fascia di persone per le quali atteggiamenti razzisti e discriminatori sono in realtà la risposta ad altri, e più profondi, problemi. Non parlo delle persone convinte e schierate ideologicamente, ma di tutte quelle — e sono l’ampia maggioranza — per cui il razzismo è, di fatto, una razionalizzazione”.

A parlare è john powell, esperto di diritti civili e razzismo strutturale statunitense e direttore dell’Othering & Belonging Institute all’università della California a Berkeley, e l’occasione è l’apertura della Othering & Belonging Conference a Berlino, nell’ottobre 2023.

La citazione di john powell non è letterale — ho tradotto e parafrasato ciò che ha detto in modo, credo, molto fedele. Qui è possibile ascoltare l’intero intervento.

Ascoltare powell è per me un gradito ritorno: più di dieci anni fa, a Milano, il suo intervento sugli aspetti inconsci del razzismo aveva cambiato radicalmente il mio modo di fare attivismo.

Aspetti inconsci del razzismo — cosa sono? E perché dovrebbero interessarci? In fondo il razzismo è ideologia, è interesse, è violenza e barriere fisiche e burocratiche all’accesso ai diritti. Tutte cose ben reali, che si possono toccare. Che c’entrano l’inconscio o concetti quali othering e belonging — estraniamento e appartenenza — che definiscono l’istituto di powell?

I vari volti del razzismo

Immagine tratta dal sito del Policy Lab del Children’s Hospital di Philadelphia, https://policylab.chop.edu/understanding-physician-implicit-racial-bias

Le domande sono legittime: è vero che il razzismo, nelle sue varie versioni, è principalmente un’ideologia. E non importa che negli ultimi decenni sia passato da una versione biologica (le razze dell’Ottocento e della dottrina nazista) a una culturale (lo scontro di civiltà in cui siamo imbevuti dall’11 settembre in poi): in ogni caso si tratta di un processo che mira a costruire un’alterità di persone con meno diritti, con corpi meno desiderabili o ripugnanti o pericolosi, la cui vita ed esistenza hanno meno valore.

Esistono molti strumenti a disposizione di attivisti e ricercatori che definiscono i vari tipi di razzismo e concetti associati. Uno dei più completi e recenti (nel 2023) è il Glossario resistente realizzato da Razzismo brutta storia.

E il razzismo è anche interesse e sfruttamento: leggi come la Bossi-Fini, che rendono ricattabili i lavoratori e le lavoratrici straniere, comprimono i salari reali introducendo quella concorrenza sleale che promettevano di combattere, a tutto vantaggio di imprenditori, capitalisti e sfruttatori.

Ma le persone realmente convinte da un punto di vista ideologico sono (ancora) poche, e coloro che profittano davvero dall’estrazione di valore sono un numero altrettanto esiguo: che dire di tutti gli altri?

Che dire di quelle ampie e crescenti fasce di popolazione che, , seppur penalizzate dalla concorrenza al ribasso indotta da leggi razziste, rispondono con sempre più convinzione alle sirene della destra populista e alla retorica anti-immigrati, creando le condizioni politiche per legittimare leggi sempre più restrittive e soffocando sul nascere le iniziative progressiste?

Perché stereotipi e pregiudizi su “gli arabi”, “i rom”, “gli ebrei”, “gli africani”, “i cinesi” sono così diffusi anche fra persone non particolarmente ideologizzate? E, per coloro che hanno provato a combatterli: cosa li rende così difficili da smontare?

Poster di una campagna per la Giornata Mondiale per l’eliminazione della discriminazione razziale della rete pan-europea UNITED for intercultural action sugli stereotipi e i pregiudizi

Slogan come “ci rubano il lavoro” e “non ci sono neri italiani” sono sulla bocca di tutti; il senso di disprezzo nei confronti delle persone razzializzate (e, in particolare, di quelle nere) è ormai diffuso e sdoganato; i partiti autoritari e popolisti di destra sono in crescita ovunque e stanno minacciando concretamente di smantellare il sistema di welfare che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi 80 anni. E la situazione sembra peggiorare di anno in anno.

Come mai? E come fare a invertire la situazione?

E che c’entrano gli aspetti inconsci in tutto questo?

Tensioni psicologiche e il ruolo dell’altro

Torniamo agli esempi di cui sopra: cosa rende stereotipi, pregiudizi e slogan così immuni al debunking, così virali, così allettanti? Per capirlo, proviamo a fare un passo all’interno dei nostri processi psicologici.

I cambiamenti molto rapidi producono ansia”, dice john powell “sia a livello individuale che collettivo”. Mentre la paura, secondo il manuale MSD, “è una risposta emozionale, fisica e comportamentale alla percezione di una minaccia esterna, l’ansia è uno stato emotivo stressante e spiacevole di nervosismo e malessere […] meno legata al tempismo di una situazione minacciosa: può essere anticipatoria di una minaccia, persistere dopo uno scampato pericolo o si può presentare in assenza di una chiara minaccia”.

Il personaggio di ansia nel nuovo film Pixar “Inside Out 2”

Insomma, l’ansia si presenta quando la nostra sicurezza è insidiata da qualcosa di indefinito che alligna all’orizzonte. E in questo momento storico non mancano motivi per provarne: il cambiamento climatico (per il quale si parla, non a caso, di ecoansia); le evoluzioni tecnologiche e il ruolo sempre crescente delle intelligenze artificiali nel mercato del lavoro; i mutamenti demografici in atto e l’invecchiamento delle società europee; l’erosione dei livelli di benessere e consumo rispetto alle generazioni del boom economico e lo smantellamento dei sistemi di welfare in buona parte dell’Occidente.

Ciascuno di questi avvenimenti è già di per sé epocale e poiché si stanno verificando tutti assieme, non c’è da stupirsi se le persone e le comunità si trovano a gestire elevatissimi livelli di ansia.

Mantenere nel tempo un’attesa continua e vigile contro un nemico che non si sa bene da dove arriverà è un’attività estremamente stressante da un punto di vista fisico e psicologico; alla lunga, occorre che l’ansia prenda la forma di qualcosa di più concreto e affrontabile.

Il trailer de “Il deserto dei Tartari”, film tratto dal capolavoro di Dino Buzzati che racconta perfettamente il senso di insostenibile tensione nei confronti di una minaccia che non si materializza mai

Il meccanismo attraverso cui l’ansia viene trasformata in paura (e poi in rabbia, e poi in odio, e poi in azione); il percorso che permette la creazione di un colpevole collettivo su cui scaricare le nostre insoddisfazioni; il motivo per cui queste spiegazioni funzionano e si diffondono così bene — tutto questo ha a che fare con il modo in cui è strutturato il nostro cervello:

noi pensiamo, dialoghiamo e impariamo tramite meccanismi narrativi — cioè storie.

Il mondo attraverso la lente delle storie

Nell’universo non esistono dèi, non esistono nazioni né denaro né diritti umani né leggi, e non esiste alcuna giustizia che non sia nell’immaginazione comune degli esseri umani”, sostiene lo storico Yuval Noah Harari nel suo saggio 21 proposte per il XXI secolo. L’immaginazione (o immaginario) comune di cui parla Harari è composto da quelli che lui definisce fenomeni intersoggettivi: mentre i fenomeni oggettivi esistono “indipendentemente dalla consapevolezza umana e dalle credenze umane” e quelli soggettivi sono invece “qualcosa la cui esistenza dipende dalla coscienza e dalle credenze di un individuo”, i fenomeni intersoggettivi esistono “all’interno di una rete di comunicazione che collega la coscienza soggettiva di molti individui”.

Solo noi esseri umani, all’interno del vasto e composito mondo animale, siamo in grado di infliggerci l’un l’altro atroci sofferenze, di torturarci e ucciderci, di scatenere guerre in nome di entità astratte quali l’appartenenza a una nazione o una religione.

“Il vero motivo del successo della nostra specie è che solo noi siamo in grado di comunicare riguardo a cose che non esistono al di fuori della nostra mente”

Ma siamo altresì gli unici a raggiungere livelli di cooperazione che ci consentono di costruire dighe, produrre vaccini, spedire alcuni di noi su un altro pianeta. Harari identifica il segreto del successo dei Sapiens nella rivoluzione cognitiva avvenuta circa 70.000 anni fa: se le formiche e le api sono in grado di cooperare, ma in modo estremamente rigido e solo all’interno dello stesso gruppo; se lupi e scimmie antropomorfe riescono a collaborare, ma solo in gruppi molto piccoli e che si conoscono bene; ecco che gli esseri umani possono lavorare a una causa comune in gruppi di dimensioni sbalorditive e con modalità e obiettivi molto eterogenei. E questa cooperazione su vasta scala si fonda sulla creazione di miti comuni.

Le storie come meccanismo per capire noi stessi e il mondo

L’importanza delle storie non ha valore soltanto nelle relazioni fra individui. Anzi, tutto parte da

come i meccanismi narrativi influenzano il modo in cui il cervello umano comprende la realtà, crea collegamenti tra i fatti e impara cose nuove (dal manuale su narrazioni, contro narrazioni e narrazioni alternative WE CAN! Taking Action against Hate Speech through Counter and Alternative Narratives del Consiglio d’Europa).

Secondo lo storico Drew Gilpin Faust, “noi creiamo noi stessi a partire dalle storie che raccontiamo sulle nostre vite, storie che impongono uno scopo e un significato a esperienze che spesso sembrano casuali e discontinue”. Secondo Drew Westen, prima dell’avvento della scrittura, “le storie erano il modo principale in cui i nostri antenati trasmettevano conoscenze e valori” e riflettevano e affrontavano le grandi sfide psicologiche della crescita (attraverso le fiabe) o dell’età adulta (attraverso i miti), oppure interpretavano i grandi misteri dell’universo e le relazioni fra gli essere umani e il mondo circostante (attraverso le religioni).

Le storie sono ovunque. Il collettivo americano Pop Culture Collaborative nel suo paper “From Stories to System” utilizza una metafora (di nuovo: un espediente narrativo) affascinante per illustrare la nostra relazione con esse. Un pesce (chiamiamolo Nemo per semplicità) può essere impegnato in un numero notevole di attività durante la sua giornata: nuotare, mangiare del plancton o altri pesci, evitare di essere a sua volta mangiato, accoppiarsi, riposare. Quello che probabilmente Nemo non sta facendo è nuotare pensando: “Acqua. Acqua. Sono nell’acqua. C’è acqua intorno a me”. Per Nemo l’acqua non è acqua: è la realtà.

Per Nemo l’acqua non è acqua: è ciò che viene dato per scontato

Come Nemo, tutti noi nuotiamo in una sorta di oceano, solo che al posto dell’acqua che vortica intorno a noi ci sono delle narrazioni. E come Nemo, pochi di noi attraversano le proprie giornate pensando: “Narrazioni, narrazioni, ci sono narrazioni intorno a me”. Eppure, queste narrazioni influenzano tutto il modo in cui viviamo, vediamo e pensiamo a noi stessi nel mondo.

Queste narrazioni ci sembrano realtà, come l’aria che respiriamo. Sono il nostro mondo.

Le narrazioni politiche

Ma se è vero che noi apprendiamo, diamo un senso alle nostre esistenze e leggiamo le relazioni con gli altri e con il mondo tramite meccanismi narrativi, è nella costruzione delle comunità che le storie e le narrazioni diventano fondamentali. Le storie dicono ciò che una comunità è e non è (le sue identità) e ciò che fa o non fa (la sua direzione politica). “Le storie che i nostri leader ci raccontano sono importanti”, afferma Drew Westen, “perché ci orientano verso ciò che è, ciò che potrebbe essere e ciò che dovrebbe essere”.

In un prossimo articolo di questa serie cercherò di fare ordine fra i vari concetti (storie, narrazioni, storytelling, rumours, …) e di illustrare meglio i meccanismi attraverso cui le storie definiscono il campo del possibile, “la cornice in cui i cervelli umani pensano al mondo e alle possibili soluzioni ai problemi che incontrano [e quindi] ciò che consideriamo intuitivamente possibile”; in un terzo post andremo ad esplorare alcuni approcci e strumenti sviluppati da un’ampia gamma di istituzioni, associazioni e collettivi per decostruire o influenzare le narrazioni esistenti e per crearne di nuove.

Un esempio da manuale di storytelling politico con cui un candidato appartenente a una minoranza ha “ridefinito l’immaginario del possibile”

Prima, però, torniamo a john powell e all’esempio da cui eravamo partiti: l’ansia generata dalle sfide della contemporaneità viene trasformata dai leader (politici, religiosi, della comunità), che riescono “a dare corpo a quest’ansia e a trasformarla in paura”, cioè in un’emozione più gestibile e che permette di focalizzarsi su una causa concreta e reale.

Per delle persone che vedono minacciata la propria stabilità economica (e quindi il proprio status sociale, la propria identità, il proprio posto nel mondo — e non importa nemmeno che la minaccia sia reale o percepita: l’ansia è proprio la preoccupazione per un pericolo che ancora non si è concretizzato), una narrazione che si articola intorno al concetto che “gli stranieri ci rubano il lavoro” (è un po’ più complicato di così, ma ci torneremo) è un modo per rendere comprensibile, condivisibile e affrontabile l’ansia relativa ai cambiamenti che si profila all’orizzonte.

  • Comprensibile, perché inquadra ciò che mi sta accadendo all’interno di un contesto e di rapporti di causa-effetto (io perdo il lavoro perché un altro lo ruba);
  • Condivisibile, in quanto permette di entrare in relazione con le persone che vivono la stessa situazione (non ci siamo più solo “io” e “l’altro”, bensì “noi” e “loro”);
  • Affrontabile visto che contiene implicitamente una soluzione (senza stranieri, staremo di nuovo bene).

In fondo, come spiega powell, “l’ansia porta generalmente a due possibili risposte: le speculazioni su un futuro terribile e distopico, oppure il ritorno a una idealizzata età dell’oro”.

A proposito di ritorno al passato: lo slogan con cui Donald Trump ha vinto le elezioni del 2016 e il nome del suo movimento è “Make America Great Again”, cioè rendere l’America grande di nuovo.

“Gli immigrati ci rubano il lavoro” ha un appeal notevole non solo perché è semplice, non solo perché si fa riferimento a schemi mentali estremamente comuni (in particolare quello della scarsità, cioè che di alcuni beni esista una quantità finita e che più siamo a dividerceli, più piccola sarà la parte che mi spetta. Questo può essere vero per beni concreti come le mele o la terra — ma è assurdo pensare che lo stesso principio si applichi a una realtà astratta e complessa come “il lavoro”. Pure viene automatico farlo, per i motivi che vederemo più avanti), ma anche perché funziona a livello emotivo. La narrazione trasforma l’ansia in paura, concentra il mio malessere su una causa (e, quindi, un obiettivo), e mi permette di “collettivizzare” questi sentimenti creando un fronte comune con chi se la passa come me.

“Negli Stati Uniti la disuguaglianza di reddito ha raggiunto il livello maggiore dell’ultimo secolo” — “Guarda lì, un immigrato ti sta rubando il lavoro” Credits: https://sociable.co/web/americans-blame-immigrants-unemployment/

Molte persone si sentiranno perfettamente legittimate a condividere questa narrazione, prendendo attivamente parte alla sua diffusione. La de-umanizzazione dell’altro è implicita d’altronde nella narrazione stessa:

gli immigrati non “prendono” il lavoro, un’azione con una connotazione valoriale neutra, bensì lo “rubano”, un termine associato istintivamente a un crimine e, quindi, a una punizione.

Perché lavorare sulle narrazioni

Le narrazioni sono quindi il modo in cui una società definisce se stessa, inquadra i problemi che deve affrontare (e gli eventuali colpevoli) e seleziona le soluzioni da intraprendere. Finora abbiamo parlato di razzismo, ma lo stesso meccanismo si può utilizzare per comprendere le narrazioni sessiste (chi è, o cosa fa, un “vero” uomo e una “vera” donna), sociali (la povertà come colpa del singolo e non come responsabilità sociale) o ambientali (l’idea che un certo livello di inquinamento vada tollerato per non perdere posti di lavoro).

Per cambiare la società è quindi fondamentale intervenire sulle narrazioni? Oppure occuparsi di comunicazioni scalfisce appena la superficie dei problemi? Peggio ancora: è giusto (e auspicabile) che l’attivismo ricorra a strumenti comunicativi che ricorrono alle emozioni, che parlano “alla pancia della genete”, come fa il peggior populismo di destra?

Se, come in fondo sostiene anche powell, gli atteggiamenti discriminatori sono frutto di un malessere occulto, non converrebbe concentrarsi sul risolvere i problemi concreti delle persone — ad esempio, rafforzando il sistema di welfare — e lasciare che ansia e storytelling razzista si sgonfino da soli?

Personalmente, ritengo che ci siano almeno due ottimi motivi per considerare il lavoro sull’immaginario collettivo uno degli strumenti (ma non l’unico) imprescindibili per costruire una società più equa e libera.

Innanzitutto, perché intervenire sulle dinamiche “concrete” diventa impossibile se il contesto non lo permette. Prendiamo un esempio italiano: l’abolizione del reddito di cittadinanza. Molti e molte (me incluso) pensavano che, una volta approvata, una misura simile sarebbe stata intoccabile perché economicamente vitale per moltissime persone. E sbagliavamo: il RdC è stato smantellato rapidamente e senza provocare quasi alcun sussulto nella società (nonostante qualcuno ci abbia provato).

Uno degli eventi della campagna Ci vuole un reddito

Non solo praticamente nessuno è sceso in piazza a difenderlo, ma

dato l’ampio e trasversale successo dei partiti che formano la coalizione di governo, è quantomeno probabile che le stesse persone che beneficiavano del RdC abbiano votato per i partiti che promettevano di toglierlo.

Il fenomeno non riguarda solo l’Italia — negli Stati Uniti (e non solo) ci si chiede da molti anni com’è possibile che le classi sociali più povere votino apparentemente contro i propri interessi. Nel prossimo capitolo andremo a illustrare alcune possibili spiegazioni, ma il punto fondamentale è che, in un contesto democratico,

non serve a nulla vincere senza convincere.

Approvare una politica inclusiva e progressista senza aver costruito il consenso culturale per difenderla non solo è inutile sul lungo periodo, ma rischia di essere perdente sul breve, soprattutto per i politici che le propongono (a tutti i livelli).

Ogni nuova norma dovrebbe quindi trovare un suo posto e un suo significato all’interno di una più ampia narrazione che la sostenga e, anzi, spinga a farne solo un primo passo. Costruire e promuovere queste narrazioni diventa vitale per le coalizioni sociali progressiste.

Il secondo motivo è che l’educazione alla comunicazione è educazione alla cittadinanza. Nell’ultimo secolo giornali, radio e tv avevano modificato il nostro rapporto con l’informazione: negli ultimi vent’anni, internet e i social network l’hanno completamente stravolto.

I processi con cui viene costruito oggi l’immaginario collettivo sono diversi da quelli di quindici anni fa — e nessuno sa davvero quali saranno fra altri quindici (anche in vista dell’ormai imminente esplosione delle potenzialità delle intelligenze artificiali).

Nel suo saggio sullo storytelling, Christian Salmon parla della violenza simbolica, una violenza che “tende a influenzare le opinioni, a trasformare e strumentalizzare le emozioni, privandoli [i cittadini, NdR] dei mezzi intellettuali e simbolici per pensare la propria vita. La lotta degli uomini per l’emancipazione passa per la fiera riconquista dei mezzi di espressione e narrazione.” E i primi passi verso la riconquista sono conoscenza e comprensione:

per noi attivisti e attiviste, acquisire e diffondere consapevolezza sul modo in cui algoritmi, policy makers e imprese sfruttano il modo in cui funzionano le nostre menti diventa imprescindibile.

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