Patto per una Torino antirazzista. Una riflessione a più mani

Nuove Narrazioni
6 min readMar 8, 2021

Tra dicembre 2020 e febbraio 2021 Licia Cianetti, ricercatrice dell’università Royal Holloway University of London, ha svolto una serie di conversazioni informali con alcun* dei/lle partecipanti al processo di scrittura del Patto su Antirazzismo Bene Comune: Rosalie Orozco Bajade (Associazione Culturale Filippina del Piemonte), Tommaso Pozzato (Balon Mundial), Ayoub Moussaid (InMenteItaca), Luca Fancello (InMenteItaca) e Joy Uzoije (Movimento Tenente Mercurio). Quello che segue è un riassunto dei punti principali emersi da queste conversazioni, scritto in prima battuta da Licia Cianetti e poi rivisto e corretto da tutt*.

Cosa c’è di nuovo?

L’idea di stabilire un patto di medio-lungo termine tra la Città e la società civile per costruire insieme pratiche antirazziste è innovativa. È un momento di apertura importante, sia per il Comune che per le organizzazioni che partecipano. Per il Comune questa apertura dà la possibilità di riconoscere che esiste un problema di razzismo istituzionale, che è un problema interno all’istituzione e che quindi ha bisogno di occhi e braccia esterni per essere affrontato. Anche per le organizzazioni il Patto può segnare un cambio culturale importante perché incoraggia a trovare modalità di lavoro collaborative, mettendo intorno allo stesso tavolo realtà che altrimenti sono più abituate a competere per gli stessi bandi che a coordinarsi. Il fatto che
tante realtà abbiano deciso di impegnarsi in un processo aperto, senza un fine certo (e senza la certezza di finanziamento) ma per una causa comune si può già considerare un successo del Patto. Inoltre, questo percorso di costruzione alla pari, in cui organizzazioni della società civile e funzionari del Comune lavorano insieme, può essere un punto di forza, perché lascia il Patto meno in balia di vicende elettorali. Guardando al futuro, se le organizzazioni che partecipano al Patto rimangono coese possono mantenere il Patto vivo e spingerne gli obiettivi anche con un cambio di guardia al Comune.

Punti critici

Come sempre, è difficile fare qualcosa di nuovo. Perché quando si prova a fare qualcosa che non si era fatto prima non esiste un tracciato sicuro e si procede per tentativi.

Ma anche perché ogni iniziativa nuova si costruisce sulla base di squilibri, diseguaglianze e esclusioni “vecchie” che tendono a riproporsi e a riprodursi.

È da questo scontro tra l’ideale e la realtà del Patto che emergono dei punti critici che riassumiamo in due temi chiave qui sotto come spunto per pensare al futuro del Patto.

Chi c’è, chi non c’è, chi parla e chi no?

Nonostante le intenzioni inclusive, il processo è rimasto lontano dall’idea iniziale di un Patto scritto dai/lle dirett* interessat*, cioè da coloro che il razzismo lo subiscono. In breve, ci sono poch* dirett* interessat* nella stanza (virtuale) e quei/lle poch* stanno spesso in silenzio.

Riflettere sul perché è importante, anche se la risposta è complessa e rimanda a quelle strutture preesistenti (“vecchie”) di cui si è accennato sopra. Una frase di un* dei/lle partecipanti riassume bene la dinamica “vecchia” che si è spesso ripetuta anche in questo processo nuovo: “noi stranieri siamo studenti, non siamo ancora maestri”. Mentre portare realtà diverse intorno allo stesso tavolo è importante, il come si costruisce un tavolo condiviso è altrettanto se non più importante:

  • A livello di struttura, tempi stretti e modalità di lavoro che facilitano dinamiche di (co-)progettazione possono ridurre lo spazio di ascolto. Se l’attenzione è da subito su quali e quanti progetti si possono fare all’interno del Patto, chi è abituato (per professione) a pensare per progetti si trova a proprio agio, ma chi ha esperienze dirette di razzismo che non si riconducono immediatamente a una progettualità specifica ha poco spazio per raccontarle. Questo è un punto cruciale, perché “parlare di razzismo sulla carta e fare progettazione è una cosa, viverlo è un’altra”.
    Non perché dalle esperienze dei/lle dirett* interessat* non sarebbero scaturiti progetti, ma perché c’è una differenza di sensibilità e di ownership verso questi progetti che si perde se si pensa al progetto prima e all’esperienza dopo.
  • A livello di linguaggio, al di là di potenziali barriere linguistiche, l’utilizzo del “progettese” come working language contribuisce a rafforzare una gerarchia tra le/gli addett* ai lavori (i “maestri”) e le/i non addett* ai lavori (gli “studenti”) che determina chi si sente di avere l’autorità di parlare e chi invece resta in silenzio. E, come ricordato da un* dei/lle partecipanti, il silenzio non è un buon segnale in un processo partecipativo perché “dove c’è silenzio vuol dire che o non si è capito o non si è d’accordo”.

Quindi che si fa?

Innanzitutto, bisogna pensare a come si dettano i tempi di un processo partecipativo.

I tempi (stretti) dell’amministrazione rischiano di limitare quelli (lunghi) della partecipazione, che ha bisogno di costruire fiducia e trovare modalità di collaborazione nuove, soprattutto se si vuole allargare il cerchio dei/lle partecipanti.

Stabilire una tabella di marcia serrata aiuta a mantenere il focus e ottenere il risultato (la firma del Patto) ma facilita la partecipazione di chi è abituato a fare progettazione, riducendo invece lo spazio perché dal Patto emergano logiche nuove che mettano davvero al centro le esperienze di chi il razzismo lo subisce.

Per ribaltare la dinamica “vecchia” tra “maestri” e “studenti” si potrebbe ripensare il processo in due fasi: una di ascolto, che coinvolga i/le dirett* interessat* a dettare l’agenda (le priorità, gli obiettivi, la visione a lungo termine del Patto); e una seconda fase di progettazione, in cui gli/le addett* ai lavori (sia dal Comune che dalla società civile) si inseriscono per aiutare a convertire queste esperienze in progettualità, in un’ottica di supporto e alleanza invece che di motore del Patto.

In un’ottica futura, dal momento in cui ormai il Patto c’è (quasi) e la fase di ascolto c’è stata meno, la riflessione sul chi parla e chi no può essere riportata dentro i singoli tavoli di lavoro del Patto per organizzarne il lavoro in modo da mettere al centro le esperienze dei/le dirett* interessat*. Partendo da come si decidono i tempi, per esempio organizzando riunioni a orari che facilitino la partecipazione di chi non fa progettazione di lavoro. E pensando a come si gestiscono i modi della collaborazione, per esempio, adottando pratiche di educazione non formale per favorire lo scambio e l’ascolto prima che si passi alla progettazione per assicurarsi che i processi decisionali interni al Patto siano il più possibile inclusivi.

E il Comune che fa?

Una delle domande più spinose che emergono da una collaborazione alla pari tra istituzione e società civile riguarda il ruolo dell’istituzione. C’è ovviamente una questione di fondi: attività e progetti hanno dei costi, la partecipazione attiva di settori della società civile non professionalizzati (cioè che non fanno progetti per mestiere) ha bisogno di essere supportata anche economicamente, e in generale una domanda ricorrente durante il processo di scrittura del Patto è stata: “ma il Comune in che modo investe su questo?

Al di là della questione basilare di chi ci mette i soldi, la domanda ha una valenza più ampia. Riguarda anche fino a che punto l’intera macchina comunale sia interessata e coinvolta in questo processo, se ci sia una visione politica ampia su come utilizzare questo processo per intervenire su questioni di razzismo sistemico e istituzionale, o se si tratti di una bella iniziativa dell’Ufficio Diritti che può mettere a rete una serie di bei progetti (comunque non un risultato da poco) ma non va a cambiare in modo più profondo la città.

Questa è una delle difficoltà per l’istituzione nel lavorare alla pari con la società civile: l’istituzione allo stesso tempo partecipa al processo, lo dirige (perché, anche se con flessibilità e apertura, ne delimita i tempi, le modalità e il campo d’azione), e ne è il target ultimo. Non tutti gli interventi sull’istituzione (quello che bisogna cambiare per “aggiustare” il razzismo
istituzionale) e sulla società (quello che bisogna cambiare per “aggiustare” il razzismo sistemico) sono riducibili a progetti ma hanno bisogno di politiche più ampie su cambiamento istituzionale, redistribuzione e eguaglianza.

Il Patto potrebbe avere una funzione importante da svolgere verso la formulazione e realizzazione di questa visione politica più ampia.

In questo senso, però, pensare per progetti rischia di limitare sia il campo d’azione per le attività del Patto, sia il ruolo (che non può non essere centrale) dell’istituzione nel promuovere una visione politica chiara e politiche inclusive a tutto campo. In ottica futura per lo sviluppo del Patto, il sottogruppo sul razzismo sistemico, che ha sollevato alcune di queste questioni, o un’altra formazione interna al Patto, potrebbe diventare
un’interfaccia più istituzionalizzata che faccia da partner, da guida, ma anche da controllo per il Comune per riformare l’istituzione e le sue politiche in senso inclusivo e anti-razzista.

NdR — Non aggiungo né tolgo nulla a queste riflessioni che sono felice di ospitare su questo spazio. Anzi, spero chel a discussione sul Patto crescerà e si arricchirà di altri contributi. Come sempre, se hai domande, dubbi o riflessioni, scrivimi! Lasciami un commento qui sotto oppure contattami su Twitter a tw/@orpheo85

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